L’ultimo intervento di Giuseppe Guzzetti alla Giornata Mondiale del Risparmio è un’autentica eredità, un lascito morale che niente ha della malinconia di un commiato, bensì consegna un monito pieno di energia, di saggezza e di forza propositiva per l’avvenire. Si conclude con un invito semplice, che non lascia margini all’interpretazione: non lasciare che l’odio spacchi il Paese. Da questa conclusione avviamo la ricca selezione di stralci tratti dal suo intervento.
Un invito
A questa mia ultima Giornata Mondiale del Risparmio vorrei lasciare una personale considerazione, che la mia coscienza mi impone. È la considerazione di un “anziano” che ha passato molte stagioni politiche, economiche, sociali, a partire dall’immediato dopoguerra, quando lo scontro politico era durissimo, ma non è mai venuto meno il rispetto dell’avversario. Nella stagione che stiamo vivendo un veleno sta insinuandosi nella nostra vita quotidiana e colpisce i gangli più delicati della nostra democrazia. È l’odio che spacca il Paese, come emerge da episodi che quotidianamente ci allarmano. L’odio non viene dal nulla. I bisogni reali non possono essere ignorati. Non vanno strumentalizzati, ma affrontati e risolti. Anziché percorrere la strada spesso difficile e impervia del confronto democratico, si preferiscono scorciatoie pericolose. L’avversario non deve essere un nemico; la diversa opinione non va demonizzata. La dialettica è utile e necessaria per una positiva prospettiva di cambiamento e i problemi del Paese non vanno imputati ad ipotetici poteri forti. La pluralità dell’informazione va tutelata come ricchezza di una società democratica. Affido a Voi, classe dirigente del Paese, l’urgenza di una riflessione ma, soprattutto, di comportamenti e di atti che fermino questa deriva che mina alle radici la nostra democrazia.
Il bilancio pubblico e il tema della Giornata
Riguardo al tema assegnato a questa Giornata Mondiale del Risparmio innanzitutto è necessario dare attenzione al ruolo e allo spazio da assegnare all’intermediazione finanziaria. Si tratta di una questione di evidente importanza perché il circuito finanziario ha raggiunto dimensioni enormi e dimostra una quasi inarrestabile capacità di crescita… All’inizio degli anni Novanta le due grandezze erano ancora relativamente simili. La crescita eccessiva dei volumi è stata peraltro accompagnata da una più elevata complessità delle strutture organizzative dei gruppi finanziari e soprattutto da una maggiore densità della loro rete di relazioni, due caratteristiche il cui cruciale rilievo è stato evidenziato dalla drammatica esperienza del 2008-09. C’è un dato che forse sconcerta più di altri. Per ammissione generale, una delle cause profonde degli eventi del 2008-09 è individuabile nell’incremento eccessivo (spesso incontrollato) dell’indebitamento di numerose categorie di operatori (soprattutto imprese e settore pubblico). A dieci anni di distanza da quella terribile crisi, l’ammontare del debito in essere a livello globale è stimato addirittura maggiore: da un lato a una contenuta diminuzione nei paesi più sviluppati si è affiancata una sostenuta crescita nel resto del mondo (Cina soprattutto, ma non solo); dall’altro lato l’alleggerimento della situazione del settore privato è avvenuta con il trasferimento di parte del suo debito nei conti del settore pubblico. Quanto all’Italia, il bilancio pubblico è un fattore rilevante per la tutela del risparmio; conti in ordine o comunque da riportare in ordine secondo un impegnativo programma, credibile e affidabile che faccia leva sulle poste del bilancio pubblico e, nel contempo, su crescita, produttività e investimenti, proteggono il risparmio, sia quello destinato al finanziamento del Tesoro, sia quello affidato al sistema bancario e agli intermediari specializzati. Del resto, quando si valorizza, nel dibattito pubblico, il risparmio delle famiglie e la ricchezza finanziaria privata, quasi a voler equilibrare il peso del debito pubblico, ciò deve comportare una rigorosa tutela di questi beni fondamentali e l’impegno del Governo e di tutte le istituzioni a vario titolo competenti, nonché della società civile, perché non si instauri nuovamente, nei termini osservati nel pieno della crisi globale e, poi, europea, il circolo vizioso tra sistema bancario e debito pubblico. Agire su quest’ultimo con un piano pluriennale di misure per la sua riduzione in funzione del Pil è un dovere non tanto nei confronti dei parametri europei, quanto, innanzitutto, nei confronti delle future generazioni e, nell’immediato, per prevenire un aggravamento delle difficoltà con una strategia adeguata fatta non soltanto di interventi finanziari, ma anche di misure che incidano nell’economia reale… Quanto al risparmio, è innanzitutto responsabilità del Governo di non mettere a rischio il risparmio degli italiani. Il risparmio privato degli italiani è considerato da Moody’s elemento di forte stabilità del sistema. Questo risparmio nelle ultime settimane è già stato significativamente ridotto. Il risparmio privato – e non solo – non può venire sacrificato sull’altare del debito pubblico… La percezione di un impoverimento etico del contesto in cui finanza ed economia quotidianamente si realizzano può determinare disorientamento nell’attitudine al risparmio dei singoli e impoverimento del processo di sviluppo della collettività. Evitare che questo avvenga è la missione che ci è stata assegnata e nella quale ci sentiamo quotidianamente impegnati.
Il circuito finanziario
Quando si parla di circuito finanziario si fa riferimento a una realtà composita. Una parte è sottoposta a puntuale regolazione: una regolazione in questi anni cresciuta in misura sostanziale e che ha comportato anche significativi costi di compliance, vale a dire delle spese sostenute per verificare che i comportamenti aziendali siano rispettosi delle normative di vigilanza. Secondo autorevoli valutazioni, tenendo conto di tutte le novità introdotte, la dotazione patrimoniale richiesta agli operatori del credito negli ultimi dieci anni è aumentata, ceteris paribus, da 3 a 5 volte. A questa realtà se ne contrappone un’altra composta da numerose tipologie di operatori che svolgono solo alcune delle funzioni tipiche delle banche essendo però sottoposte a una regolamentazione meno stringente. Quasi la metà dell’attività finanziaria mondiale è riconducibile a queste istituzioni, non illegali ma spesso piuttosto opache tanto da essere nell’insieme definite un sistema bancario ombra. L’aspetto da sottolineare è che questa seconda componente sta registrando una crescita ben più intensa di quella del circuito bancario ufficiale. Il proliferare di forme di “banca-ombra” richiede misure adeguate e tempestive da parte dei Governi e delle Autorità monetarie. Del pari, anche se qui non siamo nel campo dell’elusione delle regole, va compreso a fondo, quindi disciplinato, e sottoposto a controlli, il diffondersi del fenomeno del Fintech. Una tale evoluzione delle nuove tecnologie nel campo finanziario è inevitabile; può essere volta sempre più verso finalità positive di impiego del risparmio… Occorre, tuttavia, contribuire a governare il fenomeno, che, alla lunga, accanto a esigenze di trasparenza e di correttezza, porrà seri problemi di parità concorrenziale con le banche e gli altri intermediari istituzionalmente operanti nel campo del risparmio. Si pensi solo a quel che potrà accadere se colossi, come Amazon, ad esempio, decidessero di entrare nel settore del credito e finanziario in genere. Il “primum movens” deve sempre essere la tutela del risparmio. Se le componenti del circuito finanziario – banche, mercato azionario, mercato dei titoli del debito, fondi d’investimento – vengono considerate separatamente è difficile negare un loro contributo positivo al dispiegarsi della dinamica economica. La domanda a cui si deve rispondere è se l’ampliarsi dei volumi della finanza abbia una positiva relazione con la dinamica dell’economia reale… Quelli che abbiamo visto crescere in maniera più intensa in questi anni sono soprattutto quei comparti della finanza cui interessa poco confrontarsi con la domanda di famiglie e imprese, e che invece preferisce orientarsi alla conquista del guadagno più immediato. Che fare per contrastare questa tendenza, per far emergere (o meglio, riemergere) una finanza finalizzata principalmente al sostegno dell’economia reale? La sfida che si propone è di ampio respiro, da realizzare lungo un tracciato in gran parte ancora da disegnare. C’è chi invoca decisi interventi sistemici di contrasto, tesi non a smussare qualche eccesso ma a trasformare intere sezioni del sistema finanziario, nazionale e internazionale. Un intervento di questo tipo è sicuramente auspicabile. Ma per realizzarlo sarebbe necessaria una sintonia politica e una visione condivisa del ruolo del circuito finanziario che onestamente in questa fase faccio fatica a vedere a livello continentale e ancor più a livello globale.
La finanza sostenibile
In questi anni si è cominciato a vedere un flusso crescente di iniziative orientate verso una finanza sostenibile. Sotto il titolo di Finanza sostenibile, sono raccolte esperienze diverse che vanno dal microcredito alle tante forme di finanza etica. Secondo alcune stime a livello europeo le attività di questo tipo ammonterebbero ad alcune centinaia di miliardi, un aggregato ancora limitato, ma che comincia a farsi notare soprattutto per la promettente crescita. Comincia ad essere apprezzabile il numero di coloro che hanno incrementato i loro investimenti verso questo comparto, anche perché una più ampia informazione ha sfatato la convinzione che questo tipo di gestione produca rendimenti modesti. Sta emergendo sempre più il dato che la finanza sostenibile produce rendimenti più che in linea con le medie di mercato di altri investimenti che non hanno questa specifica connotazione. Se in questo ambito l’Italia non è ancora nelle posizioni di vertice della graduatoria, è però il primo paese che ha definito a livello normativo in modo preciso cosa distingue le banche “etiche e sostenibili” (legge di bilancio 2017). La disposizione (inserita nel Testo Unico Bancario) da un lato impone alcuni vincoli e prescrizioni (ad esempio, almeno il 20% dei crediti deve essere riservato a onlus e imprese sociali; nessuna distribuzione di utili), dall’altro lato concede alcune agevolazioni fiscali (non concorre a formare il reddito imponibile il 75% delle somme destinate a incremento del capitale proprio). Dobbiamo sostenere questo tipo di esperienze e favorirne l’ulteriore sviluppo. Ma dobbiamo anche vigilare per evitare che l’approccio speculativo contagi il sistema bancario ufficiale. Come ammoniva un grande banchiere “la banca è un’impresa che porta un’enorme responsabilità. Le sue cautele non sono mai troppe, i suoi errori sempre troppo gravi. La sua azione deve essere audace e cauta insieme, legata alla realtà di oggi, ma in armonia con la prevedibile realtà di domani”. Le doti che Raffaele Mattioli con queste parole auspicava ritrovare nel banchiere (ma più in generale, in chi interviene nell’intermediazione finanziaria) non sono abilità di natura tecnico-gestionale. Quelle cui fa riferimento sono soprattutto qualità etiche.
Le norme e l’etica
Quando si parla del rapporto tra etica ed economia, tra etica e finanza sono molti quelli che esprimono un senso di fastidio, come se questo fosse un argomento secondario o addirittura non pertinente nella messa a fuoco delle problematiche economiche sul tappeto. L’agire umano comporta sempre una scelta etica: come per qualsiasi attività e professione, questo vale anche per l’attività finanziaria ed economica. Se si vuole un futuro migliore e sostenibile è quindi importante che questo tema venga posto al centro di una coraggiosa riflessione. Ognuno di noi si misura (direi quasi quotidianamente) con questa problematica. È però necessario che questa elaborazione esca dalla dimensione personale e trovi (in modo non saltuario) un riscontro collettivo, perché il buon funzionamento di un’economia si basa su presupposti etici condivisi. Sono molti gli episodi (avvenuti purtroppo anche nel nostro Paese) che sollecitano una riflessione su quale etica debba pervadere la dinamica economica e finanziaria. Molti posizionano la linea dell’etica in prossimità di quella tracciata dal corpus normativo e giuridico che guida l’attività bancaria e finanziaria. Si ritiene, in sostanza, che il rispetto delle norme rappresenti di per sé un comportamento eticamente sufficiente. Non sono d’accordo con questa posizione che giudico riduttiva. È evidente che tra etica e legge esiste una relazione, ma deve essere altrettanto chiaro che si tratta di due ambiti che non si sovrappongono. L’etica ha una valenza più profonda e al tempo stesso più ampia. Peraltro, in un’epoca come l’attuale caratterizzata da intense e rapide trasformazioni l’etica è la bussola che aiuta a trovare il corretto posizionamento prima che una separazione tra giusto e non giusto venga sancita dal rigore della legge, un evento quest’ultimo che spesso si realizza dopo mesi o anche anni. La finanza che a noi non piace è quella che si muove senza sottilizzare troppo sulla qualità etica dei suoi comportamenti. Basta pensare al rapporto che spesso instaura con le regole. Non mi riferisco tanto ai casi di palese violazione delle disposizioni: le pesanti sanzioni minacciate e comminate dalle autorità rappresentano una remora a non proseguire oltre. Mi riferisco piuttosto all’attività meno appariscente e spesso benevolmente raccontata dell’elusione delle regole, quella continua ricerca del punto di vulnerabilità della normativa, il passaggio che consente di rispettare la forma mentre si sta violando spirito e sostanza della disposizione. Ristabilire una sana interlocuzione tra etica e finanza – il che vuol dire corretto impiego del risparmio, di cui la finanza si alimenta – può aiutare a recuperare una corretta relazione tra finanza ed economia reale. La “cattiva” finanza guarda alle problematiche reali con un approccio esclusivamente speculativo, concentrandosi tendenzialmente sui riflessi a breve termine degli scenari con cui la comunità si confronta. Questo comportamento finisce con il costituire una causa non secondaria nella crescita dell’instabilità dell’intero sistema. L’etica è una componete fondamentale delle relazioni economiche. L’osservanza dei relativi principi ritorna a beneficio, almeno nel medio termine, della positività e proficuità delle relazioni stesse. La mancanza di deontologia professionale, ai diversi livelli, non paga, neppure sotto il profilo dei ritorni attesi da una determinata attività… I casi di “mala gestio”… esigono sanzioni severe ed esemplari, anche a protezione dell’immagine della stragrande maggioranza di coloro che hanno operato e operano correttamente…Competere in immagine, reputazione, capacità innovativa potrebbe essere la nuova frontiera per gli intermediari… Chi guarda al medio-lungo termine è alla ricerca di un percorso di sviluppo sostenibile, cioè compatibile con le risorse a disposizione e coerente con le aspirazioni prevalenti nella comunità. Questa filosofia diventa efficace se viene sostenuta dal basso, cioè dalle scelte dei risparmiatori. Sappiamo purtroppo che non mancano risparmiatori che, attratti dalla promessa di un maggiore rendimento, sono pronti anche ad accettare comportamenti e finalità dell’attività d’investimento poco coerenti con un processo di sviluppo di qualità. Il promettente dinamismo della Finanza etica e sostenibile ci conferma però che i risparmiatori non sono indifferenti alla destinazione ultima delle loro disponibilità e sono quindi pronti a cogliere il diverso spessore di prassi finanziarie impegnate a non smarrire il senso di un futuro diverso e il valore di una comunità solidale. Questo emerge anche dall’indagine sugli Italiani e il Risparmio, che come di consueto Acri ha realizzato insieme ad Ipsos in occasione di questa Giornata… Anche l’attività di allocazione del risparmio, quindi, può dare un sostegno considerevole alla prospettiva di un futuro sostenibile, che in definitiva vuol dire tenere nella massima considerazione questioni quali quella della conservazione ambientale, dell’arricchimento dell’economia circolare, del capitale umano, della chiusura almeno tendenziale degli squilibri più gravi.
La congiuntura
Nell’area europea il 2018 si avvia verso la conclusione con un risultato economico positivo che, se da un lato dopo molti anni coinvolge la generalità dei paesi, al contempo è al di sotto delle aspettative. Le tensioni protezionistiche che si stanno diffondendo a livello economico mondiale sono tra i fattori cui può essere attribuita gran parte della responsabilità di questo inaspettato appannamento della dinamica economica. Per il quinto anno consecutivo l’Italia registra una crescita economica positiva. Il consuntivo, seppure ancora inferiore a quanto realizzato in media dall’eurozona, conferma comunque il superamento di uno dei periodi peggiori della storia economica del nostro Paese. Il recupero realizzato in questi ultimi anni copre, però, solo parzialmente quanto perduto negli anni più duri della crisi. Sotto molti profili, la doppia recessione successiva al 2008 ha determinato per l’Italia conseguenze più gravi di quelle inflitte dalla Grande Depressione del 1929. In questi anni abbiamo indirizzato le nostre energie soprattutto verso la ricerca delle risposte ai molti problemi posti dall’emergenza economica. Ora è venuto il momento di affrontare le questioni più profonde, non solo per meglio capire che cosa sia avvenuto nel passato recente quanto piuttosto per sciogliere i nodi che si intravedono nel processo di costruzione di un futuro migliore. Non diversamente da quanto avviene altrove, la nostra società è da tempo concentrata sul presente, poco propensa ad alzare lo sguardo per mettere a fuoco le dinamiche del futuro.Ancor più che nel passato, questa ritrosia a misurarsi con il frenetico evolversi degli scenari (tecnologici, sociali, geopolitici, etc) potrebbe determinare ricadute negative particolarmente importanti. L’adesione all’euro è irreversibile. Ciò non significa, tuttavia, che non debbano essere promosse innovazioni e modifiche negli assetti istituzionali e nel corpus normativo dell’Unione e dell’Eurozona.
Affrontare gli squilibri economico-sociali
L’azione della BCE nella politica monetaria è stata fondamentale, innanzitutto impedendo, nel 2012, una deflagrazione della moneta unica; poi agendo, da ultimo, con il “quantitative easing”. Il Presidente Draghi ha svolto un’attività fondamentale per l’eurozona e per l’Italia in particolare. A lui il nostro apprezzamento e il nostro ringraziamento. La politica monetaria può molto, ma non tutto. Una revisione degli indirizzi della Vigilanza unica apparirebbe opportuna. Così come è più che doveroso che si compiano decisi passi avanti nella realizzazione del progetto di Unione bancaria. La tutela del risparmio richiede altresì un mutamento nelle politiche dell’Unione ancora improntate a una visione di sostanziale austerità, perché sia in grado di promuovere crescita e investimenti, ben al di là del piano Juncker. Occorre che l’Unione si doti di organi della politica economica da costituire a seguito della formazione di un Parlamento europeo che con maggiori poteri dell’attuale rappresenti i popoli dell’Unione, senza peraltro far passare in secondo piano il “principio di sussidiarietà”, anzi valorizzando la sua applicabilità, anche come risposta alle spinte estremistiche del sovranismo.
Gli squilibri economico-sociali
Negli ultimi anni l’importanza dell’attenuazione degli squilibri economico-sociali ha guadagnato ulteriore centralità. Come rilevabile anche altrove, in Italia i difficili anni della crisi hanno approfondito le fratture già esistenti, a cominciare dallo storico divario territoriale. Oggi la frequenza delle famiglie che vivono in condizioni di difficoltà è al Sud circa tre volte quella che si registra nelle altre aree del Paese (quasi il 40% rispetto al 12-15%). Osservazioni di segno ugualmente negativo possono essere formulate per le imprese: se nelle regioni del Nord e del Centro il numero dei fallimenti è da tempo in diminuzione, in molte regioni del Mezzogiorno l’andamento recente è ancora in senso opposto. Lo squilibrio che la crisi del 2008-09 però ha particolarmente contribuito ad accentuare è quello generazionale. I giovani che negli anni più difficili hanno visto fortemente contrarsi gli spazi occupazionali, nell’attuale fase di ripresa beneficiano solo di un lento e limitato recupero. Il rischio povertà cui è esposta una giovane famiglia è oggi sensibilmente più alto di quello attribuibile al resto della collettività… Affinché la ripresa congiunturale possa divenire premessa di un duraturo processo di sviluppo è assolutamente necessario che al tema della ricomposizione degli squilibri sociali della nostra società venga riattribuito un posto centrale nell’agenda politica. La coesione di una società, la sua capacità di alimentare uno sviluppo diffuso, la sua capacità di includere e quindi “recuperare” chi è stato emarginato, sono un pilastro portante per una crescita duratura e sostenibile. Come evidenziato ben più autorevolmente di me in un recente documento “ogni sistema economico legittima la sua esistenza non solo mediante la mera crescita quantitativa degli scambi, bensì documentando soprattutto la sua capacità di produrre sviluppo per tutto l’uomo e per ciascun uomo”. A pronunciarsi così è la Santa Sede nel documento “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario”. A chi si deve chiedere di lavorare per aiutare la nostra società a ritrovare maggiore coesione? In senso ampio si potrebbe rispondere che questo è un impegno cui nessuno può sottrarsi… La responsabilità prima di attenuare le cause di disagio economico e sociale spetta evidentemente alle politiche del settore pubblico. La dimensione dell’impegno necessario per sostenere questo sforzo di riequilibrio della nostra società è tale che solo il settore pubblico può farsene carico. Come in campo economico, anche in campo sociale lo Stato deve intervenire là dove il privato non trova motivazioni sufficienti per investire. Questo non vuol dire che altri soggetti istituzionali non possano contribuire in misura sostanziale al raggiungimento di alcuni obiettivi intermedi posizionati lungo il non facile percorso verso una collettività più coesa. Mi riferisco, in primo luogo, al grande lavoro delle Fondazioni di origine bancaria, che da anni alimentano un crescente flusso di attività complementari, talvolta sostitutive dell’intervento pubblico. Il ruolo delle nostre Fondazioni (e più in generale delle istituzioni del cosiddetto Terzo settore) è soprattutto quello di inoltrarsi in quella “terra di nessuno” costituita da realtà sociali che non riescono ad attirare né l’attenzione del settore pubblico (perché elettoralmente irrilevanti) né di quello privato (perché economicamente non promettenti). Le nostre Fondazioni sono impegnate in molteplici attività e assumono sempre più un ruolo fondamentale nella lotta contro la povertà infantile, la disoccupazione giovanile e le fragilità che travagliano le nostre comunità (senilità, disabilità, disagio giovanile, integrazione)… Il contributo che le Fondazioni offrono lo si può ovviamente considerare sul piano delle quantità: circa 23 miliardi di erogazioni dal 2000 a oggi. Credo, però, sia importante apprezzarne lo sforzo sul piano innovativo, con ciò volendo evidenziare che spesso esse si propongono come soggetti propulsivi di sperimentazioni il cui risultato diviene patrimonio anche per le istituzioni pubbliche.