Cura e Utopia – Agostino Riitano
Diverse definizioni
In letteratura, la definizione più “asciutta” di comunità si riferisce a un gruppo di individui tenuti insieme da un linguaggio comune, che racchiude in sé la cultura, l’immaginario e i simboli. Ci sono poi due componenti interpretative della comunità: la componente antropologica e quella sociologica. La prima si focalizza soprattutto sull’elemento simbolico, dunque sulla necessità dei simboli all’interno della comunità. La componente sociologica, invece, si concentra sulla dimensione relazionale, quindi sulle cosiddette relazioni aggregate. Si aggiunge, inoltre, l’elemento psicologico, che riguarda l’influenza di scambio nelle dinamiche relazionali.
Vi sono due riferimenti teorici che possono arricchire la nostra comprensione del concetto di comunità. Il primo è Zygmunt Bauman, che nella sua opera “Voglia di comunità”, con un approccio di natura sociologica, sviluppa un ragionamento a partire da quello che un altro studioso, Gora Rosenberg, chiamava “cerchio caldo”. Come il “cerchio caldo” di Rosenberg è uno spazio all’interno del quale si realizzano relazioni paritetiche, allo stesso modo, secondo Bauman, per costruire un vero senso di comunità, è indispensabile una reale parità di risorse e di diritti.
A rappresentare l’altra faccia della medaglia del concetto di comunità, con un approccio filosofico, è George Agamben, per il quale vige l’impossibilità di essere comunità: l’unico essere possibile è l’individuo “qualunque”, è necessario dunque essere riconosciuti come individui, nella nostra singolarità, e non come comunità.
Tra questi due riferimenti aggiungerei anche un altro fattore che, a mio avviso, ha fortemente a che fare con la comunità: quello di coraggio, inteso nella sua natura etimologica “cor agere”, cioè “mettere in forma il cuore”, per “morire” come soggettività e poter rinascere come comunità. La comunità, infatti, non è solo un processo di natura organizzativa ma è soprattutto un processo di natura emotiva.
Gli ingredienti necessari
Ma torniamo al principio, chiarendo che cos’è la comunità. Le comunità agiscono in uno spazio, non necessariamente geografico, ma che può essere materiale o immateriale (si pensi ad uno spazio di interesse o disciplinare). Ed è proprio per questa dimensione spaziale che le comunità creano confini, portando con sé anche il conflitto. Per esempio, prendendo in considerazione le grandi città metropolitane, tra una comunità e l’altra si determinano degli spazi vuoti, che si prestano a essere occupati da alcune tipologie di comunità. Possiamo parlare di “comunità dentro le comunità”, che spesso abitano nelle zone di confine o in luoghi interstiziali tra zone comunitarie, rappresentando spazi di sperimentazione, passaggio, luoghi-soglia. Questi spazi sono spesso animati da forma di “tribalismo metropolitano”, che può essere stanziale, se si riferisce a quartieri o periferie, o nomade, se si crea attorno a forti interessi comuni.
All’interno di questo fenomeno possiamo osservare degli elementi primitivi dell’essere comunità, come l’esigenza di erigere dei simboli immediatamente riconoscibili e che sono funzionali al senso di appartenenza alla tribù. Altro elemento fondamentale è la creazione di un linguaggio comune, che si costruisce attraverso grandi momenti di aggregazione emotiva, come quello delle feste, che hanno in sé un importante ruolo sociale da questo punto di vista.
Un esempio è il Burning Man, un festival statunitense molto popolare che, nel deserto del Nevada, costruisce una sorta di città temporanea, con tanto di meccanismi di auto trasmissione di elettricità e di acqua, che riunisce milioni di persone in uno spazio liminale, tra due grandi città, generando un’incredibile esperienza comunitaria. Questo tipo di forme primitive di comunità possono assumere due connotazioni, una criminale o una contro culturale. La seconda può essere molto feconda perché sperimenta l’auto-organizzazione, il dibattito, la progettualità, la creatività e l’innovazione. L’interpretazione istituzionale tende a evidenziare più i fattori di rischio o pericolo, intervenendo con azioni di controllo e sanzione, ma l’esperienza del tribalismo metropolitano controculturale, che genera simboli, linguaggio e ritualizza l’aggregazione, può essere un fenomeno interessante da osservare perché può diventare una potenziale leva di rigenerazione.
Cura e utopia
Oltre a spazio, simboli e linguaggio, un altro elemento che contraddistingue la comunità è l’istinto alla cura, attraverso nono solo forme di accudimento e prevenzione ma anche di auto-organizzazione per rispondere a specifici bisogni. Oggi, che il welfare state risulta in crisi, il concetto di cura sta implementando innovative forme di attuazione e l’elemento della cura trasforma i rapporti di natura relazionale in legami, sottolineando ancora fortemente la dimensione emotiva, affettiva e valoriale delle comunità.
In questo senso, la cultura della cura ci dimostra che la comunità serba risorse auto-rigenerative e creative proprio perché non è un’entità data una volta per tutte ma è una chance. Affinché tale potenzialità diventi un atto costituente, la comunità deve avere una visione comune. Questa visione può apparire spesso come un’utopia, pare cioè fondarsi sul sogno di una realtà che non può esistere. In realtà questa dimensione utopica, così come la caratteristica di forte localizzazione delle comunità, può essere definita come un’”utopia situata”, che ha un aspetto politico e pragmatico. Si pensi alle leggi che, dopo un percorso molto lungo, hanno riconosciuto diritti precedentemente considerati inimmaginabili. Un altro aspetto è il rapporto che le utopie hanno con il futuro: non si limitano a “sognarlo”, lo anticipano. E quello anticipatorio può essere un atto orientativo, è il non-ancora che diventa un orizzonte realizzabile.
Militanza e competenza
Riguardo la dimensione dell’attivazione della comunità, può essere interessante una riflessione sull’elemento della militanza. Nel corso del Novecento, quella del militante era una figura centrale della partecipazione politica dal basso, generando delle forme di attivazione molto diverse rispetto al passato, come i collettivi o i movimenti, che non consistevano solo nella rappresentanza ma anche in azioni collettive. I modelli sperimentati dalla militanza hanno messo in discussione la natura stessa del “politico” come oggetto e discorso. Oggi si parla infatti molto più di attivismo. L’attivista non è tale per appartenenza partitica o ideologica, ma per una sfera di azione su singole questioni, che si associa ad un’attività di comunicazione. L’attivismo può essere molto interessante perché spesso diventa l’occasione attraverso la quale le persone scoprono di essere una comunità.
Una comunità si costruisce, poi, conducendo il passaggio da comunità spontanea a comunità competenti. La “competenza” indica tutto ciò che cum-petes ad un ruolo, dunque è legata alla formazione, l’operatività e l’intenzione. Dentro la dimensione della competenza non bisogna dimenticare, soprattutto nel mondo del volontariato, quello della “capacità”, ossia l’attitudine a porre in essere atti funzionale al raggiungimento di uno scopo.
Quindi, come si costruisce dunque una comunità?
Da quanto detto finora, possiamo dedurre che per dare vita a una comunità sono necessari almeno tre strati: quello interpersonale, mettendosi in gioco, ascoltando sé e gli altri, attivandosi e acquisendo una certa flessibilità e plasticità; il livello operativo, quindi il dialogo, la mediazione, l’analisi del contesto, la definizione degli obiettivi e la gestione del conflitto; infine, il livello istituzionale cioè la fase della promozione e delle grandi strategie di negoziazione.
Inoltre, per creare comunità vitali e funzionanti sono necessarie almeno tre condizioni: il coinvolgimento, dunque che gli attori sociali diventino attività; la partecipazione, che significa che gli attori sociali assumono potere decisionale e di azione; la connessione, ovvero la creazione di reti.
Il caso Matera
Un esempio emblematico è il percorso di Matera, che nel 2019 diventa Capitale Europea della Cultura. Tutto inizia nel 2008, quando un gruppo di giovani sviluppano l’idea, abbastanza utopica, di volerla candidare. La città di Matera, nell’immaginario collettivo degli anni ’50 era definitiva “la vergogna d’Italia”, poi è rimasta piuttosto sconosciuta (addirittura spesso confusa con uno dei comuni della provincia di Bari!). Lo slancio utopico di rendere una città sconosciuta in Italia, figuriamoci in Europa, comincia ad aggregare tanti giovani in un forum online, costruendo così una community, un “cerchio caldo” di natura fiduciaria. Lo spazio online non è più bastato e la community si è trasformata in una comunità reale, prendersi cura dei – solo oggi rinomati – sassi di Matera, ospitando anche giovani da tutto il mondo. Dalla comunità nasce così il comitato promotore per la candidatura della città come Capitale Europea della Cultura. Il progetto cresce e genera attenzione larga e disinteressata, costituendo anche un’associazione di volontari: 1.500 è il numero di persone che, per un anno intero, hanno lavorato insieme. Non solo la città ha ricevuto il riconoscimento nel 2019, ma l’associazione continua ancora oggi a operare, promuovendo progetti culturali in Italia e in Europa.