Comunità: parola, esercizio, possibilità – Bertram Niessen

La comunità dall’800 al 2000

“Comunità” è un termine molto utilizzato, anche nel mondo delle Fondazioni e del Terzo Settore. Se osserviamo il suo utilizzo a partire dalla fine dell’800 scopriamo diversi modi di intendere e interpretare la comunità. Si tratta di qualcosa di più di un esercizio: ha a che fare, piuttosto, con l’approfondimento della conoscenza di identità collettive e di strumenti per supportarle. Un elemento cruciale per costruire politiche territoriali generative nella cultura e nel sociale.

Uno dei padri fondatori della sociologia, Ferdinand Tönnies, ha introdotto la distinzione dicotomica tra gemeinschaft (che possiamo tradurre direttamente come “comunità”: un sistema di relazioni immediate, personali, legate da credenze e valori comuni)”) e gesellschaft (che possiamo tradurre come “società”: un sistema più complesso, basato su ruoli definiti anche artificialmente, in cui la solidarietà tra gli individui non rimanda necessariamente a credenze comuni). In questa visione – figlia dei processi di inurbamento del XIX secolo e dell’ineludibile attribuzione di arretratezza ai contesti rurali – le comunità sono luoghi sociali residuali, conservatori quando non espressamente reazionari. Una prospettiva che si è consolidata per molti decenni a cavallo di quel secolo e del successivo.

In un evidente contraccolpo, i fascismi del ‘900 hanno riportato in auge un’idea romantica di comunità legata al sangue, alla terra e alla razza, autentica e depositaria delle energie spirituali dei popoli. Si vede chiaramente nell’ideologia del Blut und Boden (“sangue e suolo”) del Terzo Reich, e ancora più esplicitamente nelle istanze comunitarie della Guardia di Ferro Rumena.  Anche per questo motivo, nel dopoguerra in molti paesi occidentali il concetto di comunità è stato più o meno implicitamente messo in cantina.

Con alcune importanti eccezioni.
Guardiamo all’Italia.

Nell’immediato dopoguerra ha avuto un ruolo cruciale il comunitarismo di Adriano Olivetti: una sintesi originale tra elementi liberali e mutualistici-cooperativi che ha introdotto espliciti elementi comunitari in forme di welfare locale legato alle fabbriche, agli uffici, alle scuole e all’edilizia residenziale pubblica. Una traiettoria che ha avuto esiti politici e organizzativi limitati ma che ha lasciato un profondo impatto culturale, visibile ancora oggi.

Una limitata portata pratica ma un grande impatto culturale hanno segnato anche le esperienze di Danilo Dolci, che hanno creato un punto di contatto e di sintesi tra istanze comunitarie con connotazioni politiche, ideologiche, valoriali e religiose anche molto diverse tra loro, sparse in tutto il Paese.

Fonte: Fondazione Adriano Olivetti | Facebook

L’esperienza controculturale delle comuni degli anni ‘60 e ‘70 ha avuto, invece, una diffusione molto maggiore, divenendo il punto d’incontro e di ibridazione tra traiettorie diversissime: dalla ricerca spirituale al materialismo storico, dall’ecologismo alla sperimentazione di forme di famiglia non tradizionali, dalla psichedelia all’operaismo.

Così come ha avuto un ruolo politico e culturale determinante l’approccio comunitario di Comunione e Liberazione: uno degli elementi principali della fuoriuscita dall’Azione Cattolica, che ha influenzato in modo indelebile la vita della politica cattolica (e non solo) degli ultimi sette decenni.

All’inizio degli anni ‘80 si costruisce poi un altro immaginario, quello delle comunità di accoglienza: luoghi di recupero e capacitazione per persone socialmente marginalizzate per i motivi più diversi, dalle tossicodipendenze alla condizione di senza fissa dimora.

Esperienze, tutte queste, importanti, persistenti e diversificate, che però avevano collocato il concetto di “comunità” in paraggi molto diversi da quelli in cui lo vediamo oggi.

Un ruolo determinante in questo cambiamento è stato svolto dalle serie TV statunitensi trasmesse negli anni ‘80 (come i Jefferson e i Robinson) che hanno, per così dire, “importato” e “naturalizzato” in Italia un’idea di comunità tutta d’oltreoceano, basata sulle città come punto di incontro (e di scontro), di “comunità etniche” distinte e separate. Un aspetto diverso e complementare di questa adozione è stato quello dei mondi LGBTQ+, che andavano sperimentando la definizione di orizzonti comuni con la politicizzazione comunitaria portata dalla lotta all’AIDS e da nuove traiettorie dei diritti civili.

Nel decennio successivo è stato determinante l’arrivo di Internet, dove il termine “community” ha iniziato a essere utilizzato per indicare in modo generico gruppi di utenti riuniti in forum con gli obiettivi funzionali più disparati, senza che condividano necessariamente valori, immaginari o ideali. È su questa base che, a partire dalla metà degli anni 2000, il marketing ha iniziato a cogliere la gigantesca opportunità data dalla profilazione dei gusti e delle scelte di consumo degli utenti, utilizzando prima gli strumenti tecnologici legati alle community, e poi quella stessa cornice retorica per chiamare all’azione comune gruppi di persone (intese però come clienti).

Serie tv “I Jefferson” 

I significanti vuoti di Levi Strauss e i rischi che corre la comunità

Negli anni ‘10 del 2000 “la comunità” finisce con l’essere ovunque, con significati però sempre diversi. Una moltiplicazione che implica inevitabilmente rarefazione, e la conseguente perdita di una parte del suo potere di azione nel mondo. Diviene uno dei “significanti vuoti” di cui ha parlato Levi Strauss, buono per tutti i contesti e gli usi: uno svuotamento di senso che comporta rischi concreti per chi si occupa di politiche territoriali

Il primo rischio è la produzione di comunità in vitro. Spesso si prova a istruire un processo comunitario quando la comunità in realtà non esiste, unendo soggetti che non sentono di avere una relazione e che si trovano assieme per motivi prettamente strumentali. Si collabora senza alleanza e quindi si strutturano legami che si interrompono appena cessano le esigenze del progetto. È per questo che la “progettazione di comunità” (o “community design”) dovrebbe essere valutata sempre con circospezione.

Un secondo rischio è quello di costruire confini artificiali senza volerlo. Ogni comunità è caratterizzata inevitabilmente da qualcuno che sta dentro e da qualcuno che sta fuori. Questo può voler dire la costruzione di nuovi capri espiatori e un aumento inaspettato di polarizzazioni sociali. È bene quindi chiedersi quali siano gli effetti collaterali di sistema ai quali si può andare incontro quando si vuole supportare una comunità.

Un terzo pericolo è quello di infantilizzare i partecipanti, “forzando” la componente affettiva all’interno di una collettività in nome di un generico “volersi bene” che non diviene mai abbastanza specifico. È un tema che è stato indagato in molte discipline diverse, e che forse trova la sua espressione critica più compiuta nel libro “Inferni Artificiali” di Claire Bishop.

C’è poi un rischio contante di community washing, una sovra-estensione del concetto di comunità utilizzato per “ripulire” percorsi, progetti, programmi che non hanno realmente a che fare con una dimensione comunitaria. In questo modo si crea facilmente un deficit di fiducia negli interlocutori e nel concetto stesso, producendo istanze di rifiuto da parte della collettività con una conseguente tendenza a rifugiarsi nella dimensione privata. È un rischio che si pone sia nei rapporti con le aziende in cerca di estensioni values-oriented del proprio brand che, più sottilmente, con le pubbliche amministrazioni alla ricerca di una validazione comunitaria delle proprie politiche.

Un ultimo rischio da prendere in considerazione, fondamentale, è quello di disabituare al conflitto. Dobbiamo sempre ricordarci che comunità non vuol dire assenza di conflitto, ma al contrario una consuetudine alla sua gestione. Il conflitto è un elemento costitutivo della vita e non si può nascondere sotto il tappeto: se si cerca di eliminarlo si perdono le competenze individuali e collettive per nominarlo, affrontarlo, renderlo trasformativo.
Con il risultato di vederlo riaffiorare, presto o tardi, senza che ci siano più gli strumenti per gestirlo.

Fonte: Canva

Strumenti per un uso consapevole del termine “comunità”

Partendo dagli elementi citati fino ad ora, possiamo provare a individuare alcuni elementi per un uso consapevole del termine e, soprattutto, di strumenti e pratiche a esse associati. Imparare a nominare la complessità vuol dire provare a gestirla.

Ecco una lista, assolutamente non esaustiva, di strumenti che possano essere utili in questo senso.

Comunità di pratica

Le comunità di pratica si fondano sulla dimensione di apprendimento collettivo: non importa volersi bene, credere necessariamente negli stessi valori, ma fare le cose insieme in un’ottica di apprendimento collettivo. In questo modo si strutturano dei processi che ci fanno crescere insieme costruendo legami che possono, in alcuni casi, essere prodromici a reali forme di comunità.

Le scene

Le scene sono gruppi di persone che fruiscono assieme determinati tipi di oggetti culturali. Il termine è usato prevalentemente in ambito musicale e teatrale, ma qualcuno parla di “scena” anche riferendosi agli ambiti imprenditoriali, come ad esempio quello delle startup. Nelle scene non c’è bisogno di avere necessariamente dei valori condivisi, e tantomeno di conoscersi. Al contrario, i soggetti che fanno parte di una scena si incontrano e condividono esperienze situate, che hanno un valore estetico e una dimensione che possiamo chiamare fenomenologica.

I pubblici

I pubblici condividono alcuni elementi di somiglianza con le scene, partendo però da presupposti diversi. I pubblici hanno una natura fortemente circoscritta nello spazio e nel tempo: possono aggregarsi temporaneamente attorno a un concerto, a uno spettacolo teatrale o televisivo, ma subito dopo si sciolgono e chi li componeva torna a essere un’individualità. Ciononostante – come mostrato da alcune pratiche di audience development e audience engagementi pubblici possono mettere in moto importanti processi trasformativi e stabilire rapporti generativi con le istituzioni sociali e culturali.

Il pubblico produttivo

Il concetto di pubblico produttivo mette al centro la dimensione proattiva del prosumer, una crasi di “producer” e “consumer”. I pubblici produttivi sono tali nel momento in cui producono pratiche, oggetti, simboli, significati che in qualche modo rientrano in circolo nei canali mediali per venire fruiti da altri. È un concetto che si può applicare a cose molto diverse, dai crowdfunding ai flash mob, e che può implicare anche gradi di consapevolezza e di riflessività molto diversi.

Comunità ibride di luogo.

Sempre più spesso attorno ai nuovi centri culturali, agli spazi di prossimità, ai beni comuni si aggregano persone con esperienze, retroterra e sistemi valoriali anche molto diversi. La dimensione di luogo è quindi quella che facilita la trasformazione verso istanze comunitarie.

Cooperative di comunità

Le cooperative di comunità sono un modello di innovazione sociale in cui i cittadini di un territorio (spesso situato in un’area interna, marginale o periferica) si organizzano per partecipare attivamente nella gestione di servizi in ottica mutualistica e comunitaria. Ci sono due elementi particolarmente significativi: l’accento sulla qualità della vita e quello sul capitale umano.

Le comunità patrimoniali

Negli ultimi anni c’è molta attenzione nei confronti delle comunità patrimoniali: gruppi di persone che valorizzano aspetti specifici del patrimonio culturale e si impegnano a preservarli e trasmetterli alle future generazioni, in collaborazione con le istituzioni pubbliche.

Fare Kin

Il concetto di fare kin arriva dal lavoro di Donna Haraway, filosofa e biologa femminista statunitense. Kin non ha una vera e propria traduzione in italiano, ma è sempre più diffuso tra gli attivisti delle nuove generazioni che sono alla ricerca di forme collettive di stampo comunitario. Un legame inter-specie che va verso l’affinità elettiva, superando le relazioni tradizionali e lo stesso genere umano includendo anche animali, piante, persone, microbi, etc.

Zoöps

Zoöp è una crasi di Zoe e Coop(erative): una forma di governance mutualistica che integra le prospettive degli attori umani e di quelli non umani, come le piante, gli animali, il suono, elementi del paesaggio. Sembra qualcosa di fantascientifico ma è un tentativo molto concreto (e già tradotto legislativamente in Olanda, dove è nato) per importare in Europa alcune istanze politiche emerse nei paesi in cui attori non umani come fiumi a montagne hanno ricevuto la personalità giuridica, sulla scorta dei saperi indigeni.

Fonte: Terres Monviso Facebook

Strumenti di conoscenza e di intervento per le comunità

Per chiudere vorrei elencare una serie di strumenti di conoscenza e intervento che possono servire nel lavoro comunitario. O meglio, nel tentativo di tradurre alcune istanze collettive in ottica solidaristica e mutualistica.

Innanzitutto bisogna lavorare sui radar, sui segnali deboli che arrivano dai territori, in una logica per cui teorie e letture arrivano dai dati e non il contrario.

È cruciale dare protagonismo alle definizioni dei parlanti, favorire l’innovazione “aperta” e condivisa da parte delle istituzioni sociali e culturali. “Aprire” significa confrontarsi con nuovi soggetti collettivi, costruire forme di governance collaborativa e guardare costantemente a quello che succede negli altri territori. Dopo aver aperto, però, è necessario fare in modo che i soggetti collettivi entrino in relazione tra loro ed è importante identificare strumenti puntuali (anche erogativi) per far nascere relazioni, mantenerle, consolidarle, espanderle.

È poi cruciale esplicitare i rischi: troppo spesso quando si ragiona in ottica comunitaria si tende a nascondere i rischi. Farli emergere, invece, responsabilizza tutti gli attori coinvolti.

È importante poi favorire percorsi di impatto intrinseci rispetto alle caratteristiche che si vogliono misurare. Unire, quindi, alle misure di impatto, nuovi indicatori che formalizzino obiettivi qualitativi. Chiedere quindi, ad esempio, ai soggetti destinatari di un’erogazione: “Come posso misurare in che modo sei arrivato al tuo obiettivo?”

E poi c’è il racconto, che ha bisogno di trovare nuovi formati e nuovi registri: i soggetti collettivi non sono solo quei gruppi di persone nelle foto di stock che attaccano post-it, anzi molto spesso sono qualcosa di completamente diverso.

 Esempi pratici

Chiudo con quattro esempi, alcuni dei quali connessi al mondo delle Fondazioni.

Il primo è “SPACE – Spazi di PArtecipazione al CEntro”: un bando di fondazione Compagnia di San Paolo che ha permesso la creazione di 100 nuovi centri culturali, centri culturali indipendenti e centri di aggregazione civica in Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta e che ha sviluppato come strumento complementare una comunità di pratica. La comunità di pratica di Space in oltre tre anni di attività ha costruito una piattaforma di scambio, mutuo aiuto e apprendimento tra pari che ha avuto esiti molto positivi in termini di consolidamento del capitale sociale e culturale sui territori.

Il secondo è “Spore”, un programma sviluppato da Arci Benevento e UCCA (Unione dei Circoli Cinematografici Arci). A partire dall’analisi effettuata con la ricerca “Torno Spesso”, il percorso ha identificato alcuni bisogni comunitari specifici nelle aree interne del Beneventano, con particolare riferimento alla circuitazione di capitale sociale e culturale e di relazioni personali tra aree interne e tra aree interne e città metropolitane. Come risposta a ciò che è emerso dalla ricerca, è stato organizzato un programma cinematografico itinerante nel Beneventano, attivando pubblici di cinefili e attivisti che hanno costruito nuovi legami.

Il terzo è “Bidini-Vizzini 2030”, il percorso di rigenerazione di un castello (ed ex-carcere) in provincia di Catania, finanziata da Fondazione Con il Sud. La rigenerazione è stata portata avanti da Officine Culturali che, oltre al lavoro sull’edificio, interviene anche sullo sviluppo di competenze agricole locali in ottica comunitaria, lavorando sul capacity building degli abitanti e dei giovani, sperimentando pratiche di turismo di prossimità e di qualità.

Da ultimo, “Spazio 13”: un centro comunitario situato nel cuore del quartiere Libertà di Bari, nato dal recupero di una ex scuola media abbandonata. L’edificio, che si sviluppa su tre livelli per un totale di 1.500 metri quadrati, è gestito da un’Associazione Temporanea di Scopo formata da 15 organizzazioni locali, prevalentemente costituite da giovani. Selezionate dal Comune attraverso un bando pubblico, le associazioni portano avanti progetti innovativi nei settori del design urbano, della fotografia, della street art, della musica e dell’architettura naturale. L’attuale struttura è l’esito di 3 bandi vinti che hanno portato a un progressivo raffinamento del senso e della governance della struttura.
Da un primo lavoro sul contenitore (la scuola) sono diventati attivatori, costruendo un’organizzazione di secondo livello in grado di intercettare risorse importanti per ristrutturare tutto l’edificio, ma soprattutto di diventare una comunità di pratica e una comunità professionale.

Fonte Spazio 13 Facebook

Bertram Niessen – Fondatore cheFare